Probabilmente in ritardo, ma infine sono riuscita a leggere qualcosa della grande scrittrice Irène Némirovsky. Non so perché, ma non volevo iniziare dal celeberrimo “Suite francese”, ma possibilmente avvicinarmi a lei partendo da qualcosa di meno conosciuto e magari trovato per caso facendo un giro in libreria. È così che mi sono ritrovata tra le mani “La pedina sullo scacchiere” e, come accade spesso e volentieri i grandi scrittori, mi ha catturata totalmente.
Non ho mai imparato a giocare né a dama né a scacchi. Quel poco che so l’ho letto in giro, senza mai avere la possibilità di metterlo in pratica. Forse è proprio per questa mia mancanza che in un certo senso ne subisco il fascino, probabilmente per quell’aura di mistero che emanano quelle pedine. Non nego che questo mio pensiero possa aver fortemente influenzato la mia scelta, rivelatasi una nuova interessante sfida da affrontare. No, questo libro non ha nulla a che vedere con scacchi o dama, ma il titolo mi ha incuriosito molto e ho scoperto così Némirovsky.
La scena si apre in una giornata normale di una persona comune: Christophe Bohun è un semplice impiegato in un’agenzia un tempo di proprietà del padre, poi fallita e rilevata dall’ex socio del genitore. Ciò su cui la scrittrice però vuole attirare la nostra attenzione è il legame tra una vita piatta, spesso priva di qualsiasi gioia, e la conseguente psicologia dell’uomo. Non si tratta di un eroe di tutti i giorni né tantomeno di qualcuno che nel corso della storia cerca una svolta nella sua macchinosa e monotona esistenza, ma al contrario ci sguazza dentro.
Bohun è la rappresentazione dell’essere umano tra le due guerre, desideroso di pace e di abbondanza ma incapace di muovere un dito per raggiungere questi obiettivi e quindi preda arrendevole ed indifesa, destinata all’insoddisfazione ed alla depressione. Una moglie che non ama, un figlio che gli è estraneo, amante di un’ex fidanzata di gioventù con cui si illude di trovare ancora una breve scintilla di vitalità, disprezzato sul lavoro dal suo capo che lo tiene solo per il cognome che porta, figlio di un vecchio malato che non lo riconosce come suo eguale. Una triste esistenza senza scopo, che potrebbe continuare all’infinito.
La fine in un certo senso per me è stata una sorpresa: quest’uomo infatti, vittima dell’inettitudine, di un’aridità d’animo e di una solitudine a lungo psicologica, diventata infine vera e propria, riesce a compiere un forte gesto, dando una svolta alla sua vita. A lungo una pedina manovrata sullo scacchiere, improvvisamente Christophe decide di realizzare la sua personale mossa, una spinta che lo porterà a rendersi conto (anche se con freddezza e distacco) di ciò che è stata la sua esistenza.
Uno stile secco, preciso, chiaro quello adottato dalla scrittrice, che vuole sottolineare come questo personaggio sia stato incapace di reagire a qualsiasi sollecitazione esterna per lungo tempo. Sono parole forti quelle che Némirovsky fa pronunciare al suo protagonista alla fine: è un’ammissione di aver fallito, ma senza particolari rimpianti, accettando senza battere ciglio qualsiasi cosa accada.